Il ruolo del docente e le strategie sperimentate in un CAS

Durante il secondo anno di Fellowship di Teach For Italy ho lavorato come docente di italiano in un centro di accoglienza straordinaria (CAS) a Roma in cui domiciliano persone richiedenti asilo, in particolare uomini adulti e alcuni ragazzi minori non accompagnati. La maggior parte degli ospiti proviene dal Gambia, dal Burkina Faso, dal Mali, dalla Costa D’Avorio, dalla Guinea e dal Bangladesh. Ho lavorato come unica docente a fronte di una presenza cospicua di ragazzi, in media 220 persone, il cui numero variava in base ai nuovi ingressi, ai trasferimenti o alle partenze. 

Il contesto del CAS e il mio ruolo di docente

I ragazzi che ho conosciuto sono immersi in un limbo e, come Giano bifronte, hanno un volto che guarda alla loro terra e a questa li radica, nella bellezza e nell’orrore, l’altro rivolto ad un presente e futuro ancora senza radici, con molte aspettative e attese che non trovano spazio per essere nutrite per via di un iter lungo, incerto e faticoso da vivere quotidianamente e non accompagnato da adeguati servizi e opportunità utili a sostenerne il carico emotivo e psicologico. La particolare condizione psicologica e sociale che vivono, la mancanza di opportunità di inclusione nel tessuto socioculturale, nonché la loro età e una storia spesso difficile alle spalle, mi ha portato in breve tempo ad interrogarmi sul ruolo del docente in questi contesti e sull’importanza che soprattutto qui assume orientare il lavoro mettendo al centro i loro reali bisogni e necessità quotidiane e in base a queste modellare gli obiettivi di apprendimento a breve e medio termine, data la durata della permanenza incerta e variabile. In tale contesto ho maturato la convinzione che il docente non abbia un ruolo prettamente didattico ma si debba intendere come facilitatore dell’inclusione e dell’emancipazione sociale tramite l’utilizzo della lingua sia per la narrazione di sé sia per lo sviluppo di competenze socio-culturali e di cittadinanza utili sia a muoversi nei contesti che questi ragazzi devono affrontare sia a emanciparli dalla condizione di marginalità in cui spesso vivono. Ho maturato inoltre l’idea che il docente, collaborando anche con le figure professionali presenti nel centro di accoglienza, debba essere un abilitatore di opportunità anche al di fuori dalle mura del centro, costituendosi come un ponte tra questo e il territorio e debba favorire così il loro inserimento all’interno della realtà territoriale, in vista di una progressiva emancipazione e conquista di autonomia e capacità di azione.

Come ho costruito la relazione con gli studenti del CAS: strategie e attività

Trattandosi di ragazzi perlopiù adulti in una situazione psicologica e contestuale molto delicata, il modo migliore per comprendere i loro bisogni è stato quello di aprirsi al dialogo organizzando colloqui individuali e di impegnarsi a porre le basi per l’instaurarsi di una relazione orizzontale di fiducia in cui docente e studente si percepissero alla pari e che passasse anche attraverso il sentire e la dimensione affettiva. Un altro approccio risultato efficace è stato quello di riconoscere e comunicare frequentemente che in questa relazione lo scambio era reciproco ed era fonte di apprendimento e arricchimento anche per me e non univocamente per loro. Ciò voleva dire far sentire che io stessa ero mossa e trasformata costantemente da loro. Riconoscendoli quali persone con un’autonomia decisionale, portatrici di desideri, esperienze, storie e valori da mettere in luce come ricchezza e rilevando la forte motivazione all’apprendimento, anche in una prospettiva lavorativa, la strategia migliore è stata quella di negoziare insieme alcuni obiettivi di apprendimento e co-costruire un “patto formativo” flessibile e modificabile a seconda delle esigenze e delle contingenze. 

Durante le lezioni altri metodi efficaci si sono dimostrati l’apprendimento basato su compiti di realtà, nonché l’apprendimento e la collaborazione fra pari. In merito a questo, è risultato vincente affidare progressivamente ai ragazzi stessi la gestione di alcune attività con i nuovi ospiti o con chi aveva una minore conoscenza e padronanza della lingua. I ragazzi hanno riproposto e sviluppato modalità di insegnamento sperimentate con me precedentemente e queste sono state occasioni per responsabilizzarli e dimostrargli concretamente una fiducia che spesso non sono abituati a ricevere. Anche grazie a costanti feedback positivi, abbiamo così lavorato sul rinforzo dell’autostima e del senso di autoefficacia nonché sulla presa di coscienza delle loro capacità e competenze. È necessario lavorare su questi aspetti soprattutto con i molti ragazzi che hanno mai frequentato la scuola nel loro Paese e che vivono una condizione di analfabetismo anche nella lingua di origine. Parliamo di adulti con un bagaglio esperienziale enorme non supportato da un percorso di scolarizzazione e da una conoscenza metacognitiva delle loro competenze e potenzialità. Con chi era debolmente o affatto scolarizzato ho iniziato un percorso di alfabetizzazione che ha portato gradualmente alla conquista della lingua e con questa alla conquista di autostima e di un senso di possibilità. È stato emozionante prender parte a questo lungo processo di vera e propria emancipazione linguistica e sociale a fronte di enormi sforzi richiesti e di un contesto sociale non favorevole. La progressiva padronanza della lingua è da accompagnarsi, secondo la mia esperienza, a dei percorsi di cittadinanza, così che si sviluppi anche la consapevolezza di avere strumenti per rivendicare attivamente il diritto ad essere ascoltati, accolti e inclusi. A tale scopo, una necessità riscontrata durante i momenti di dialogo era quella di orientarsi nel complesso iter che ogni richiedente asilo si trova ad affrontare. Per far fronte a questo bisogno, ho studiato i momenti principali che l’istanza di protezione prevede per padroneggiarne anche il lessico specifico così da presentarlo e utilizzarlo in classe, anche in collaborazione con il legale del centro, per renderli protagonisti attivi e consapevoli di tale percorso e dei diritti di cui sono portatori. 

Un ulteriore bisogno era quello di avere maggiori occasioni di apprendere l’italiano in contesti formali e informali, per far fronte alle necessità quotidiane, per cercare lavoro o corsi di formazione nonché per orientarsi in una città percepita come lontana e ancora sconosciuta. Ho, quindi, tracciato percorsi orientati al lessico del lavoro, valorizzando le loro passate esperienze e rafforzando così l’autostima e la presa di coscienza delle capacità e competenze già in possesso, in un dialogo continuo fra vita passata e aspettative future. Ho contattato le associazioni territoriali del terzo settore e i CPIA di Roma e ho inserito progressivamente i ragazzi in queste realtà, facendo da ponte tra il centro di accoglienza e il territorio e spostando progressivamente il baricentro della loro vita dal centro alla città, dato che le opportunità offerte all’interno del centro stesso non erano sufficienti a rispondere a queste necessità. 

In ultimo, il sentirsi ai margini di una città non avendo l’opportunità di viverla e scoprirla, dunque non sentendosi parte, non fa che rafforzare un sentimento di estraneità ed esclusione nonché aggravare lo stato psicologico in cui i ragazzi vivono questo delicato momento di passaggio. Per questo, ho deciso di organizzare a piccoli gruppi alcune uscite alla scoperta di Roma insieme ad una guida turistica di mia conoscenza. I ragazzi si sono entusiasmati, considerando queste uscite un’opportunità preziosa per conoscere la vita e la storia di Roma e per appropriarsi a poco a poco della città. Ogni uscita è stata seguita da un momento di restituzione in classe ed è stata un’ulteriore linfa alla motivazione a frequentare le lezioni nonché al rapporto con me e con gli altri, costruendo a poco a poco esperienze comunitarie e comuni. Queste uscite hanno nutrito la curiosità per la città e il desiderio di scoprirne il patrimonio artistico e storico sia per chi aveva già partecipato sia per chi, più restio e dubbioso, non aveva inizialmente mostrato interesse. Sono venuti in contatto anche con i diversi servizi offerti dalla città, come la tessera MIC per i musei, che li ha avvicinati di più a Roma, percepita ora come più accessibile. 

Ho potuto toccare con mano quanto questo progetto sia stato prezioso e vitale in un momento in cui alcuni ragazzi, in assenza di servizi di supporto adeguati, iniziavano a risentire psicologicamente della situazione di limbo in cui si trovavano, frequentando meno le lezioni e lasciandosi andare ad uno stato di maggiore passività e inattività. L’impatto positivo che ha avuto è stato confermato dai ragazzi stessi, desiderosi di replicare questa esperienza, nonché dalla psicologa e dal direttore del centro. 

Paola De Crescenzo, Alumna 2022-24

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